Venerdì sera, con colpevole e ingiustificabile ritardo, ho visto “Amour” Di Haneke. Osannato, criticato, premiato: tanto, forse pure troppo. La regia è essenziale, a tratti addirittura scarna, con la telecamera che spesso pare immobilizzarsi nel rispettoso intento di non aggiungere nulla di più ai gesti, agli sguardi, alle parole, ai silenzi. Il racconto filmico è ridotto all’essenziale e in fondo è proprio questo l’aggettivo che meglio si addice al dolore “sigillato” negli spazi di una casa troppo angusta per contenerlo senza esplodere.
“Essenziale”, come il colpo allo stomaco che tanto inaspettatamente quanto inevitabilmente raggiunge lo spettatore, a cui pure il regista, quasi premurosamente, aveva svelato il finale della storia prima ancora di iniziare a raccontarla.
“Essenziale”, come quel misto di paura e impotenza che sconforta e paralizza, mettendo impietosamente l’essere umano di fronte alla sua condizione di insuperabile finitezza.
“Essenziale”, come quei titoli di testa e di coda che scorrono sullo schermo senza musica, perché la musica è vita ed era la vita dei due protagonisti.
La malattia consuma e trasforma, il confine tra la vita e la morte diviene all’improvviso evanescente, il senso di soffocamento da metaforico si fa reale, il peggiore degli incubi si avvera nella più terribile delle realtà. I corpi di Jean Louis Trintignant e Emmanuelle Riva, che anche mentre si trascinano sorreggendosi a vicenda non smettono di abbracciarsi, si concedono al dramma con mirabile sobrietà e incantevole talento.
Il dibattito (pseudo)ideologico che a un certo punto si è cercato di “cucire” attorno ad “Amour” pare francamente fuori luogo. La tragedia messa in scena da Haneke non cerca consensi, piuttosto sospende il giudizio. In quel “Sei un mostro qualche volta, ma sei gentile” con cui Anne “riassume” l’amato Georges, sta probabilmente l’essenza della storia. Non ci sono né demoni né eroi; e soprattutto non c'è Dio, anche se a un certo punto “qualcuno” prova a fare capolino nella storia sotto forma di piccione, prima ricacciato dalla finestra, poi catturato e avvolto in una coperta (non si capisce bene a quale scopo).
Ci sono solo uomini, che vivono, che gioiscono, che soffrono, che muoiono. E che amano.
Giudizio sintetico: per niente facile, del tutto sincero.
“Essenziale”, come il colpo allo stomaco che tanto inaspettatamente quanto inevitabilmente raggiunge lo spettatore, a cui pure il regista, quasi premurosamente, aveva svelato il finale della storia prima ancora di iniziare a raccontarla.
“Essenziale”, come quel misto di paura e impotenza che sconforta e paralizza, mettendo impietosamente l’essere umano di fronte alla sua condizione di insuperabile finitezza.
“Essenziale”, come quei titoli di testa e di coda che scorrono sullo schermo senza musica, perché la musica è vita ed era la vita dei due protagonisti.
La malattia consuma e trasforma, il confine tra la vita e la morte diviene all’improvviso evanescente, il senso di soffocamento da metaforico si fa reale, il peggiore degli incubi si avvera nella più terribile delle realtà. I corpi di Jean Louis Trintignant e Emmanuelle Riva, che anche mentre si trascinano sorreggendosi a vicenda non smettono di abbracciarsi, si concedono al dramma con mirabile sobrietà e incantevole talento.
Il dibattito (pseudo)ideologico che a un certo punto si è cercato di “cucire” attorno ad “Amour” pare francamente fuori luogo. La tragedia messa in scena da Haneke non cerca consensi, piuttosto sospende il giudizio. In quel “Sei un mostro qualche volta, ma sei gentile” con cui Anne “riassume” l’amato Georges, sta probabilmente l’essenza della storia. Non ci sono né demoni né eroi; e soprattutto non c'è Dio, anche se a un certo punto “qualcuno” prova a fare capolino nella storia sotto forma di piccione, prima ricacciato dalla finestra, poi catturato e avvolto in una coperta (non si capisce bene a quale scopo).
Ci sono solo uomini, che vivono, che gioiscono, che soffrono, che muoiono. E che amano.
Giudizio sintetico: per niente facile, del tutto sincero.

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